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SONNY ROLLINS Volume Two

 

Anno di pubblicazione: 1957

Brani: Why Don’t I / Wail March / Misterioso / Reflections / You Stepped Out Of A Dream / Poor Butterfly

Musicisti: Sonny Rollins (sax tenore), J.J. Johnson (trombone), Horace Silver (pianoforte), Thelonious Monk (pianoforte), Paul Chambers (contrabbasso), Art Blakey (batteria)

 

 

Il 1957 di Sonny Rollins non è stata un’annata qualunque. E’ stato di più del ’65 di Dylan o del ’59 di Coltrane; è stato l’anno più incredibile che un musicista abbia donato all’arte. Uno stato di grazia permanente che rese Sonny la stella assoluta del sassofono tenore, sbaragliando tutte le decine di cloni di Coleman Hawkins o di Lester Young che affollavano il mondo del jazz di quegli anni. Rollins non aderiva né all’una, né all’altra corrente: lui era ed è ancora oggi un pezzo unico e raro. Vorrei citare il titolo di uno dei suoi ultimi lavori in studio: Sonny, please. Ecco in queste due piccole parole ci sta tutta la spigolosa e talvolta difficile abilità del caraibico di superare i limiti del proprio strumento. Si tratta, come dicevo, di un pezzo unico: prendere o lasciare.

Dicevamo di quel 1957, allorché Rollins allineò i suoi primi tre capolavori per la Blue Note (Volume 1, Volume 2 e l’immenso A Night At Village Vanguard) ed altri due masterpiece come Newk’s Time e Way Out West. Se si aggiunge che l’anno prima aveva prodotto dischi come Saxophone Colossus e Tenor Madness, diventa abbastanza chiaro il motivo per il quale il sassofonista decise di lasciare le scene nel 1958 all’apice del successo. Odiava ripetersi e sentiva che la sua straordinaria vena si sarebbe esaurita. Fino all’ultimo Miles Davis cercò di portarlo nel suo gruppo (anche quando aveva scovato un certo John Coltrane), ma lui aveva la testa altrove, in un luogo dove non c’era più musica. La resurrezione sarebbe avvenuta nel 1962, ma questa è veramente un’altra storia.

Cinque anni prima Rollins, novello “Re Mida” dell’hard bop, entrava nello studio di Newark di Rudy Van Gelder con una sorta di nazionale del jazz mainstream. Ad accompagnarlo c’era infatti la spina dorsale dei primi Jazz Messengers (l’inossidabile coppia Blakey & Silver), il contrabbassista del quintetto di Miles Davis e due “leader laterali” del be bop originale come Monk e Johnson. Musicalmente e tecnicamente si tratta ovviamente di tanta roba, ma la cosa veramente eccezionale di questo lp è la presenza di Monk in una parte non da leader. Il suo stile asimmetrico con quel pianoforte suonato come un vibrafono, mal si addice al ruolo di scudiero. Praticamente per tutta la sua carriera Monk suonò in quartetto da leader e quasi esclusivamente brani da lui composti e qualche standard. Ma di sassofonisti il buon Thelonious se ne intendeva e per Rollins fece un’eccezione. Ecco che quella notte (era il 14 aprile 1957) del New Jersey si mise seduto al piano per assistere il giovane leader in due suoi brani autografi: Misterioso e Reflections. Niente a che vedere con lo stile muscolare di Horace Silver che suonava negli altri quattro brani dell’lp. Come al solito Monk è astratto e poco blues, ma quel suo stridere e ritardare la battuta apre inediti spazi per l’incontenibile solismo dei fiati. Sorrisi sia in cielo, sia in terra.

Tra i tanti meriti di questo capolavoro del jazz vi è anche quello di avere ispirato con la propria copertina quella del disco pop Body And Soul di Joe Jackson (1984).

 
 Lorenzo Allori