Dal post punk al new romantic, lo si sa, il passo è breve. David Bowie rivaleggia con Duran Duran e Spandau Ballet nelle classifiche di tutto il mondo grazie al pop sintetico di Let's Dance (1983 - **1/2). La title track è una delle canzoni più famose di David, mentre viene ripescata anche China Girl, regalata qualche anno prima ad Iggy Pop. Questa volta il chitarrista è Nile Rodgers (Chic) e la differenza con Robert Fripp è evidente anche alle orecchie di un profano. Gli anni '80 di Bowie proseguono all'insegna di un pop banale e risaputo. Cristiane F. (1982 - **), Tonight (1984 - **), Labyrinth (1986 - *), Never Let Me Down (1987 - *) sono un vero disastro e non rendono giustizia all'autore. Il risultato deludente delle ultime prove spinge David a fondare una vera e propria band in odore di hard rock tecnologico. I Tin Machine sono formati, oltre che da Bowie, dal chitarrista Reeves Gabriels, dal bassista Tony Sales e dal batterista Hunt Sales. Tin Machine (1989 - **1/2) è un successo artistico, se paragonato alle prove immediatamente precedenti, ma è un'amara delusione per chi si aspettava un ritorno ad un livello di alta qualità; un'amarezza che Baby Can Dance proprio non riesce ad addolcire. Il seguito della storia, intitolato Tin Machine II (1991 - ***), risulta leggermente più melodico e gradevole dell'esordio della band. Niente di indimenticabile, ma Baby Universal e One Shot si lasciano ascoltare con tiepido entusiasmo. Il progetto Tin Machine si chiude con la pubblicazione dell'album dal vivo Live: Oy Vey, Baby (1992 - **1/2), un concerto in cui la stanchezza dei protagonisti sembra evidente. Goodbye Mr. Ed è comunque il miglior momento della scaletta. Il ritorno del "Duca bianco" ad una condizione accettabile di forma lo si ha con l'album Black Tie White Noise (1993 - ***), in cui ci si riappropria dello stile che aveva reso Scary Monsters un gran lavoro. Accanto a buone canzoni autografe (The Wedding, Black Tie White Noise), la scaletta allinea anche cover del livello di I Feel Free (The Cream) e I Know It's Gonna Happen Someday (Morrissey). Con la sottovalutata colonna sonora di The Buddha Of Suburbia (1994 - ***), David Bowie si pone alla testa del movimento brit pop, che del resto ha ben più di un debito con lui (Pulp, Gene, Manic Street Preachers ed ovviamente Suede). La title track è assolutamente da riscoprire. Ci sono poi diversi momenti che riportano alla mente la gloriosa collaborazione con Brian Eno. 1. Outside (1995 - ****1/2) è la prima parte di un ambiziosissimo progetto che contemplerebbe l'uscita di un album per ogni anno fino alla fine del millennio. Il progetto viene presto abortito, ma questo album è veramente spettacolare. Con l'aiuto di nuovo di Brian Eno, il nostro ci racconta le vicende surreali di Nathan Adler, detective proveniente da un futuro prossimo, sinistramente simile a quello di Blade Runner. Dal punto di vista musicale David torna sui vecchi passi di Heroes (la canzone) in Outside, A Small Plot Of Land e No Control; flirta con le nuove tendenze elettroniche con Hello Spaceboy; torna a farsi visitare dal "demone" di Robert Fripp in The Heart Filthy Lesson e ci riprova con il pop commerciale (Strangers When We Meet). Storia incompleta, ma terribilmente affascinante. L'esplosione di consensi ottenuta negli anni '90 da generi come il trip hop, la techno, il drums n'bass e la jungle, consigliano David a lanciarsi con convinzione verso l'elettronica più spinta. Ne viene fuori un disco di notevole livello, intitolato Earthling (1997 - ***1/2), che all'epoca venne poco considerato perché paragonato alla "milestone" Ok Computer dei Radiohead. Andrebbero invece sicuramente riscoperte canzoni belle e fiere come Dead Man Walking, I'm Afraid Of Americans, Little Wonder e soprattutto Battle For Britain (The Letter). Un ritorno a sonorità più pop ed adulte viene realizzato con l'album Hours (1999 - **1/2), album che riporta David nelle parti alte delle classifiche, ma che risulta anche parecchio contraddittorio. Le iniziali Thursday's Child e Something In The Air sono buone canzoni, ma poi le promesse non vengono mantenute nel seguito della tracklist. Bowie At The Beep (2001 - ***1/2) è un cofanetto in tre cd che intende raccontare il rapporto tra Mr. Jones e la BBC. Nei primi due cd sono presenti pregevoli cartoline provenienti dal periodo 1969 - 1973 (molto belle John I'm Only Dancing e la cover di I'm Waiting For The Man dei Velvet Underground), il terzo cd prevede invece la registrazione integrale di un concerto londinese del 2000. Perfect Beginners e Wild Is The Wind sono i momenti migliori di un ottimo show. Troppe cover e molta incertezza sulla direzione da prendere caratterizzano il deciso passo indietro di Heathen (2002 - **). La sola Slip Away è degna di cotanto passato. Anche Reality (2003 - **) purtroppo non brilla per la qualità generale. Sembra che Bowie stia rivivendo il periodo di appannamento cronico dei propri anni '80 e per i fans questo non è certo una buona notizia. Storytellers (2009 - ***) è una performance live molto corta in cui David rilascia anche un'intervista tra una canzone e l'altra (molti grandi classici e poche sorprese). Nella confezione sono presenti un cd ed un dvd. Si tratta di un disco tratto da una puntata di una fortunata serie di MTV figlia dello stesso concetto che ha reso la serie Unplugged un successo internazionale. Come Storytellers era risultato alla fine troppo corto, cosi' A Reality Tour (2010 - ***1/2) rischia di rimanere indigesto per l'esagerata lunghezza. Resta comunque il fatto che questo è il vero ed unico live album che racchiude ogni sfaccettatura del poliedrico artista. E' anche l'occasione per riascoltare alcuni brani di David Bowie (All The Young Dudes su tutti) che hanno contribuito a definirne la leggenda, ma che non sono stati spesso eseguiti dall'autore. |