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Il ritorno dei SOUNDGARDEN

 

Slaves And Bulldozers:

il ritorno dei Soundgarden

 

 

Ho sempre pensato che i Soundgarden fossero il gruppo di maggior talento della scena di Seattle degli anni ‘90. Potenti come nessun altro e lucidi nel portare avanti una proposta musicale mai banale; fui piacevolmente sorpreso nel trovarli in testa alle classifiche di vendita di tutto il mondo nell’anno di grazia 1994. Portento dovuto a singoli spettacolari che rispondevano ai nomi di Spoonman, Black Hole Sun, Fell On Black Days, My Wave e The Day I Tried To Live. Eppure proprio trai gloriosi solchi di Superunknown erano presenti i granelli di polvere che avrebbero a breve mandato il gruppo a scatafascio. Innanzi tutto i Soundgarden erano dannatamente celebrali e questo, lo si sa, per il rock (soprattutto duro) non è quasi mai un punto di forza. Poi erano anche contorti, in quel modo perverso che non faceva mai esplodere i ritornelli come si sarebbe voluto, mentre gli arrangiamenti erano tecnicamente ineccepibili, ma non abbastanza da abbindolare i fanatici delle Ibanez e dei “chitarristi da corsa”.

Andate a ripescare l’album dei Temple Of The Dog, fatemi questo santo piacere. Quelli sono i buoni e vecchi Pearl Jam, musicisti onesti amanti del rock n’roll senza tanti fronzoli, con in più Chris Cornell alla voce (e Matt Cameron alla batteria, ponte ideale tra le due ormai storiche formazioni). Come vi sembra? Ve lo dico io: pressoché perfetto. Se quel disco fosse uscito nel 1993, in pieno hype grunge, avrebbe venduto più di Superunknown. Se i Soundgarden avessero assecondato meglio il talento vocale di Cornell (il Robert Plant, ma che dico il David Coverdale degli anni ’90), oggi sarebbero lì a contendere ai Pearl Jam il ruolo di headliner nei maggiori festival americani.

Invece i Soundgarden facevano scrivere le canzoni al bassista Ben Sheperd o al chitarrista Kim Thayl, gente che voleva piacere al grande pubblico come lo vogliono gli autori dei programmi di Rai Educational; gente che scriveva canzoni contorte come Searching With My Good Eye Closet o Room A Thousand Years Wide, psichedeliche come Applebite o stranianti come Head Down. Eppure, in quell’inizio di anni ’90 in cui musicalmente tutto poteva succedere, arrivò perfino il successo. Era però destinato a durare poco. La rabbia disorientante di Down On The Upside, certamente poco capito ed apprezzato dai nuovi fans del sabato sera (quelli che pensavano che i Soundgarden fossero solo il gruppo fico che aveva inciso Black Hole Sun), mise la parola fine ad una storia destinata a fare scuola.

Un’altra caratteristica peculiare frenò il successo del quartetto nell’epoca d’oro: una sorta di allergia ai concerti, che divenne col tempo proverbiale. I Soundgarden passarono dieci anni a litigare con mixer e volumi, massacrando dal vivo canzoni che in studio ammaliavano per la loro perfezione formale. Chris Cornell aveva poi (ed ha, come ha evidenziato pure l’effimero progetto Audioslave) una voce che dimostrava nella dimensione live diverse sbavature ed imperfezioni. Nel 1995 il gruppo ebbe la sventura di fare un tour con Jeff Buckley come supporto e le differenze tra un cantante realmente eccezionale ed uno che avrebbe voluto tanto esserlo divennero di data in data sempre più lampanti.

A distanza di tanti anni dalla fine di quella storia, i Soundgarden hanno deciso di tornare insieme (tanto lo fanno tutti) e hanno celebrato l’evento con una doppia raccolta (che originalità!) e con un live celebrativo intitolato Live On I – 5. Ebbene le perplessità che avevano accompagnato la band nell’ultima parte di carriera vengono confermate da questo disco. I suoni sono senza dinamiche ed assolutamente appiattiti, l’energia sembra spesso artificiosa, come se a produrli fossero dei professori universitari che decidano nel week end di suonare heavy metal; la voce di Chris Cornell risulta infine spesso imprecisa (calante o crescente, a seconda delle canzoni). Insomma un mezzo disastro salvato solo dalla bellezza delle composizioni. La storia del rock è piena zeppa di gruppi “da studio”, i Soundgarden sono tra i più grandi di quest’ultima categoria. Gli XTC del grunge (che ridere!).

Un paio di mesi fa è uscito un live degli Alter Bridge registrato nel 2007 (Live From Amsterdam), prodotto che dovrebbe avere diversi punti di contatto musicali con Live On 1 – 5. Ascoltando Miles Kennedy ed il vostro eroe di gioventù Chris Cornell uno dietro l’altro, verrete presi dalla malinconia. Non fatelo.

 

Lorenzo Allori