Si ricordano con piacere il fulminante inizio gotico intitolato The Kiss, il brioso pop di Catch e Just Like Heaven, le dolci ballate If Only Tonight We Could Sleep e One More Time (la seconda con ancora una volta elementi gospel). Sono invece francamente rivedibili certi eccessi di funk sintetico in stile Peter Gabriel come Why Can’t Be You?, Hot! Hot! Hot! e Like Cockatoos. Mentre in Inghilterra sta esplodendo la moda delle droghe sintetiche, i Cure si immergono nell’uso degli oppiacei ed il naturale risultato è un ritorno ad atmosfere pesantemente narcotiche e dark. Disintegration (1989 - *****) è il capolavoro di tutta una vita in musica e vende perfino bene grazie al grazioso singolo Lovesong. Se solo però provate ad avvicinarvi troverete la marcia sintetica della title track, l’inquietante ballata barocca Lullaby e gli assalti sonici di Fascination Street e Last Dance. La palma d’oro della tristezza spetta però di diritto al trittico di disperate canzoni d’amore Plainsong / Pictures Of You / The Same Deep Water As You. Solo i nervi a pezzi hanno smascherato il pagliaccio con le labbra truccate ed i capelli sparati in aria. Entreat (1990 - ***) è la tutto sommato inutile fotografia (molto parziale) di un trionfale concerto al Wembley Stadium di Londra, in cui i Cure suonano una parte della scaletta di Disintegration. Mixed Up (1990 - **) è invece la rivisitazione in stile Happy Mondays / Primal Scream del repertorio pop del gruppo. Disco da dimenticare se non fosse per un curioso inedito, caratterizzato da un sound ultra – chitarristico, che si intitola Never Enough. Mentre il pop inglese subisce con soggezione l’esplosione grunge che arriva dagli States, i Cure colpiscono ancora nel segno con l’ottimo Wish (1992 - ****1/2), forse l’unico dei dischi della band in cui la qualità media delle canzoni è davvero uniforme. Vengono rivisitati tutti gli stili affrontati dal gruppo in tutti i precedenti anni di carriera. Ecco dunque affrontata la materia gotica con Open, End e la lunghissima From The Edge Of The Deep Green Sea. Il pop trova nei singoli Cut, Friday I’m In Love ed A Letter To Elise (impreziosita da un bellissimo assolo di chitarra di Porl Thompson) i propri campioni. Le ballate lente ed evocative si chiamano invece Trust ed Apart. Il cuore si spezza irrimediabilmente allorché parte il violino sintetizzato nel finale di To Wish Impossible Things. Lo stato di grazia di questa formazione dei Cure (Robert Smith, Simon Gallup, Boris Williams, Porl Thompson, Perry Bamonte) viene documentato con due album dal vivo che escono quasi contemporaneamente e che insieme rappresentano uno dei leggendari lunghissimi concerti della band. Cure Show (1993 - ****) è doppio ed indugia maggiormente sul repertorio pop (molto bello il medley acustico tra All Day And All Of The Night dei Kinks e Doing The Unstuck); Paris (1993 - ****) è singolo e ci presenta le canzoni più dark (l’album maggiormente gettonato è addirittura Seventeen Seconds con ben tre estratti). Al termine del tour Porl Thompson lascia il gruppo per unirsi alla band di Jimmy Page e Robert Plant. I Cure richiamano il tastierista Chris O’Donnell (che aveva suonato con loro da The Top a Disintegration) e promuovono Perry Bamonte alla chitarra. La difficoltà di sostituire la chitarra psichedelica di Thompson è però evidente nei singoli del periodo, tutti in odore di elettronica (Burn – colonna sonora del film The Crow – Wrong Number e la cover di Purple Haze di Jimi Hendrix). Con queste premesse è perfino banale che Wild Mood Swings (1996 - **) sia uno degli album più brutti ed inutili della loro carriera. Si salvano solo l’ode iniziale alle droghe sintetiche intitolata Want e la struggente ballata Bare. Pessimi i due singoli (comunque di successo): The 13th che sfoggia addirittura delle trombe mariachi (sic!) e Mint Car che autoplagia in modo smaccato In Between Days. Mai dare per morto Robert Smith. Dopo qualche anno di silenzio i Cure tornano con un album oscuro e pieno di lugubri riferimenti alla morte. Si intitola Bloodflowers (1999 - ***) ed è un ritorno alle sonorità che i fans amano di più: quelle della dark wave. La scaletta di Bloodflowers è talmente compatta che sono poche le canzoni che spiccano. Ci rimane l’obbligo comunque di segnalare gli oltre undici minuti della spettacolare Watching Me Fall e la ballata orchestrale The Last Day Of Summer. La voglia di mostrare le radici della band porta i Cure a registrare a Berlino un live album memorabile intitolato Trilogy (2002 - ****), in cui vengono riletti in modo integrale gli album Pornography, Disintegration e Bloodflowers. Dalla scaletta vengono eliminati i due bis che poco c’entrano con questi tre dischi (A Forest e 10:15 Saturday Night). The Cure (2004 - *) è semplicemente il punto più basso della carriera (e forse pure di tutto il rock inglese dello scorso decennio). Un album prolisso ed inutile in cui i Cure decidono di mettere in luce i debiti contratti verso di loro dai Nine Inch Nails e dall’ondata nu metal. Più che gothic, horror vietato ai minori. Dopo l’annuncio ufficiale dello scioglimento, Robert Smith ci ripensa e torna ad una formula sonora con una sola chitarra. 4:13 Dream (2008 - ***) è almeno un disco gradevole, con un inizio fulminante e forse troppa noia in coda. Il pezzo forte è pop e si intitola The Only One. |