Roadhouse Blues è un capolavoro da destinare ai posteri ed anche se il resto del disco non è sullo stesso livello, brillano di luce propria You Make Me Real, Peace Frog ed Indian Summer (che però è un’outtake addirittura delle sessions del primo disco). Absolutely Live (1970 - ***) è il tanto atteso primo album dal vivo del complesso e dovrebbe mostrarci il quartetto nel suo elemento preferito (il palco). Si tratta invece di una raccolta di esibizioni piuttosto confuse. C’è molto blues in Absolutely Live, ma quasi mai di buona qualità. Il disco si ricorda soprattutto per corrette versioni di Break On Through e When The Music’s Over e per la prima registrazione integrale di Celebration Of The Lizard. Il tanto decantato drumming di John Densmore è un passo indietro rispetto a quello degli altri batteristi dell’epoca influenzati dal jazz (Ginger Baker dei Cream, Mitch Mitchell degli Experience, Mike Shrieve dei Santana e Ed Cassidy degli Spirit). L.A. Woman (1971 - ***1/2) chiude la vicenda terrena di Jim Morrison. L’album è molto meglio di quanto generalmente si dica. Innanzi tutto qui c’è la straordinaria Riders On The Storm, ma anche Love Her Medly e L.A. Woman (strepitosa la versione che ne darà Billy Idol alla fine degli anni ’80) sono appena un gradino sotto. Un disco di rock blues forte e chiaro, senza alcun presagio funereo. Morrison muore a Parigi da grasso turista barbuto fissato per l’alcol e la poesia. Other Voices (1971 - *1/2) vede i Doors continuare senza Jim Morrison, con Manzarek (soprattutto) e Krieger che si alternano alla voce. La mia posizione è che non ci sono Doors senza Jim Morrison (Ian Astbury mi perdonerà). Il voto è una conseguenza naturale del concetto. Full Circle (1972 - *) ancora i Doors in trio. Questo, lo confesso, non l’ho nemmeno ascoltato. Diciamo che il voto è di stima. Per fortuna dopo la smettono di tediarci. An American Prayer (1978 - **) è un album in cui le registrazioni di Jim Morrison che legge le proprie poesie vengono accompagnate musicalmente dagli altri Doors. Lui sarebbe andato in sollucchero nel realizzare un progetto come questo. Verrebbe quasi da dire “meno male che è morto prima!”, se non fosse che poi gli altri ce l’anno propinato lo stesso. La title track è degna di una televendita di Wanna Marchi. Misteriosamente nella scaletta viene inserita la più leggendaria e devastante versione live di Roadhouse Blues che si conosca (mezzo voto in più). Nel 1998 è stata realizzata una versione del ventennale con l’ovviamente prescindibile inedito The Ghost Song. |