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ROSSO FLOYD Michele Mari

 

Einaudi, pp.281, € 20

 

Era da molto tempo che non divoravo un libro così. Consigliatissimo, dunque: e non solo ai fans dei Pink Floyd. Ma andiamo per ordine…

Michele Mari non è un critico musicale né una persona che, per lavoro, si occupa di musica. E’ un romanziere, e questo Rosso Floyd, a suo modo, è un romanzo: fatto, per la precisione, di “30 confessioni, 53 testimonianze, 27 lamentazioni di cui 11 oltremondane, 6 interrogazioni, 3 esortazioni, 15 referti, una rivelazione e una contemplazione”. Nientemeno.

Un romanzo-istruttoria sul gruppo in cui Mari immagina di chiamare a testimoniare i quattro Floyd storici (Waters è l’uomo cavallo, Gilmour l’uomo gatto, Wright l’uomo topo e Mason l’uomo cane) e ogni tipo di personaggio che ha gravitato loro intorno: dai manager ai familiari, dagli amici d’infanzia ai colleghi musicisti, dai tecnici del suono ai registi ai gestori dei fan club.

Così facendo, lo scrittore italiano rivisita le varie fasi della vita del gruppo e raccoglie, ‘distorce’ e a volte inventa di sana pianta voci brevissime che si leggono d’un fiato e si compongono in una Floyd story semi-vera, miracolosamente informativa, al livello (si direbbe) delle biografie migliori (tantissimi gli spunti, ad esempio, dalla ‘bibbia’ di Nick Schaeffner Pink Floyd: lo scrigno dei segreti).

Ma il punto non è questo. Perché, ben prima di essere i ‘veri’ Pink Floyd, questi sono i Floyd di Michele Mari, che romanza opportunamente la realtà del gruppo per i suoi fini e chiama a testimoniare, tra gli altri, le anime mostruose di Pink Anderson e Floyd Council che commentano dall’aldilà la scelta di un nome destinato ad unirli per sempre (memorabile la battuta: “Ti immagini se si fossero chiamati gli Anderson Council???”). O ancora Alistair Grahame, figlio di quel Kenneth Grahame autore di quel libro per bambini, The Wind in the Willows, che più di ogni altro ispirò Syd Barrett durante la composizione di The Piper at the Gates of Dawn. Alistair Grahame, nato con un occhio cieco e l’altro strabico, morto suicida a vent’anni nel 1920. Figura della sofferenza che sta alla radice di ogni mito. I Pink Floyd, infatti, sono un mito ben più di un gruppo rock. E questo Michele Mari lo ha capito e sfruttato benissimo. Più ancora del mito, però, sono per lui l’allegoria perfetta di ogni processo creativo e del suo inevitabile incontro-scontro tra visionarietà e perfezionismo, tra l’istinto improvvisativo del genio e il duro lavoro quotidiano dei secchioni dello studio (di registrazione).

Vi ricorda qualcosa? Non è un caso. Il centro di gravità permanente del libro, infatti, il buco nero attorno a cui tutto ruota, che sta dentro ogni voce che parla come eco, ricordo, ritorno magari fastidioso e comunque ineluttabile, è lui. Syd.

Syd Barrett. L’unico a non parlare, quantomeno direttamente. Ma chi leggerà il libro di Mari resterà sorpreso dal modo (e dai modi) in cui la musica e il ricordo di un amico possano rimanere vivi e ispiratori in trent’anni di carriera a volte ingannevolmente antitetica. Fuori da ogni noiosissima diatriba critica (Meglio prima o dopo? Meglio Piper o Dark Side?) è questo il nodo che importa davvero. Un nodo umano (troppo umano?) che illumina in modo rivelatore il distacco ‘alieno’, siderale, di tanta musica Floyd, metafora definitiva e perfetta del nostro destino in viaggio, giorno dopo giorno, nel giardino dei sentieri che si biforcano. Allo scrittore, all’intensità umanissima delle sue mille voci, il merito del brivido che ci ha colto, all’improvviso, leggendo alcune di queste belle pagine.

 Luca Perlini