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Stan Getz - Focus

Le "pietre miliari jazz" di Radiogas

 


 
Anno di pubblicazione: 1961

Brani: I'm Late, I'm Late / Her - Pan / I Remember When / Night Rider / Once Upon A Time / A Summer Afternoon

Musicisti: Stan Getz (sax tenore); Alan Martin, Gerald Tarack, Norman Carr (violino); Jacob Glick (viola); Bruce Rogers (violoncello); John Neves (basso); Roy Haynes (batteria); Eddie Sauter (arrangiamenti); Hershey Kay (conduzione)


Come aprire una rassegna di pietre miliari del jazz? Le possibilità sarebbero tante. Kind of Blue, innanzitutto. My Favorite Things, o Ascension per i più coraggiosi. Ma come dimenticare Charlie Parker? O Duke Ellington? E, poi, certo, Louis Armstrong. O The Black Saint and the Sinner Lady... e i due Evans???

Nello stile di Radiogas vorrei però cominciare in modo meno consueto. Invitandovi all'ascolto di un disco davvero speciale nella carriera del suo autore e, probabilmente, nell'intera storia del jazz. Perché Focus è, in settant'anni di tentativi, la fusione più straordinaria e riuscita dei linguaggi del jazz e dell'orchestra.

Una musica totale che conquistò le cinque ambitissime stellette di "Downbeat" e stupì per primo proprio Stan Getz.
L'anno dopo, il 1962, quando ricevette il Grammy per il seducente Getz  Gilberto, l'unica cosa che il sassofonista riuscì a dire fu "I should have gotten it for Focus". Ma ormai era partita la bossanova craze, e Focus venne dimenticato in fretta per una serie di hit da classifica che sembrava senza fine. Finì, però; e negli anni del free venne dimenticato anche Getz, col suo stile così fluido, melodico, cool, "bianco" che negli anni del black power era visto come i Genesis in piena marea punk.

Il nemico, o quasi. E tuttavia anche il free passò, e Getz risorse a intermittenza, fino alle splendide registrazioni in duo col pianista Kenny Barron. Fino alla fine, tuttavia, rimase fermo su un punto: il suo capolavoro, l'unico capolavoro che avesse registrato, era "Focus". Come a dare ragione a quelle mitiche, e ormai lontane, cinque stelle di "Downbeat".
E pensare che la musica di "Focus" non era neanche sua. L'aveva composta Eddie Sauter, musicista di cui Getz aveva apprezzato gli arrangiamenti per Benny Goodman e Woody Herman. Nel 1960 Getz era rientrato negli USA dopo un soggiorno europeo di qualche anno e si era ritrovato ai margini della scena jazz, in cui adesso primeggiavano sassofonisti come John Coltrane e Sonny Rollins. Era anche il periodo, quello, in cui si vagheggiavano fusioni più o meno improbabili tra il jazz e altri linguaggi musicali, alla ricerca, ad esempio, di una "third stream" tra jazz e classica. Ma Getz non voleva uno dei consueti album di standards con l'orchestra a sfondo. Chiese piuttosto a Sauter di scrivere per lui qualcosa di totalmente nuovo: una serie di brani composti appositamente per orchestra d'archi dove però gli venisse lasciato lo spazio per improvvisare. Al resto avrebbe pensato lui. Sauter ci mise un anno.

Nel luglio del 1961 Getz entrò in studio per registrare le sue parti. Unica aggiunta oltre al sax e agli archi, Roy Haynes e John Neves alla sezione ritmica per il primo brano, I'm Late, I'm Late, basato sull'Allegro della Music for Strings, Percussion and Celesta di Bela Bartok.

L'ascolto è ancor oggi dirompente (fidatevi!) per sentimento e intensità. Nei brani veloci (I'm Late, I'm Late, Night Rider), nei tempi lenti (Her, I Remember When) e soprattutto nei due movimenti finali (Once Upon A Time, A Summer Afternoon) così lirici, sensuali ed appassionati, quasi una versione jazz del "Preludio al pomeriggio di un fauno" di Claude Debussy... Getz inventa, canta e vola sugli archi verso altezze mai raggiunte.

Perché, come ebbe a dire niente di meno che John Coltrane dopo l'ascolto di Focus, "If we could only play that way, we would".

 Luca Perlini